Regia: Luis Sepúlveda
Cast: Harvey Keitel, Angela Molina, Jorge Perugorría, Luigi Maria Burruano, Leo Sbaraglia, Andrea Prodan, Daniel Fanego, Caterina Murino
Musica: Nicola Piovani
Paese: Italia/Spagna/Argentina
Anno: 2001
Con questo film esordisce nella regia Luis Sepùlveda, scrittore cileno di sinistra tra i più amati in Europa, da sempre dedito all’impegno civile, etico ed estetico, ma costretto in passato ad un lungo esilio per sfuggire alla dittatura di Pinochet. “Responsabilità dell’intellettuale deve essere – nelle parole di Sepùlveda – mantenere una funzione di critica della realtà, dello “status quo” per procurare una forma migliore di vita”.
Con questa sua prima avventura dietro la macchina da presa, l’autore racconta con le immagini il suo romanzo “Incontri d’amore in un paese di guerra”, trasponendo la metafora della libertà come diritto inscindibile da quello alla vita nella vicenda dei desaparecidos dell’America Latina. Il suo sguardo si apre sulle dittature che ancora infangano il mondo: fin dalla prima scena uno de i protagonisti (Harvey Keitel) introduce al pubblico il senso della sua lotta, rispondendo alle parole di una sciamana andina sull’inarrestabile cerchio della paura che non ha inizio né fine; “No, non è reale questa eternità”, dice, “Sono le dittature a falsare il senso del tempo per convincerci che sono eterne”.
La storia è ambientata negli anno Ottanta, in un paese latinoamericano non ben specificato. Il dittatore di turno ha ideato una sinistra manovra mediatica per giustificare la permanenza dei militari al potere. I suoi servizi segreti sequestrano in pieno giorno e in presenza di numerosi testimoni un gruppo di dissidenti formato da uno studente appassionato di boxe (Leo Sbaraglia), un cuoco omosessuale (Daniel Fanego), un professore disilluso (Andrea Prodan), un manovale delle ferrovie ex sindacalista (Jorge Perugorría) e un barbiere ebreo (Luigi Maria Burruano).
Dietro l’ordine del dittatore i prigionieri vengono condotti in una vecchia stazione ferroviaria sperduta nel deserto, chiamata “Ninguna Parte” (nessun posto), e affidati alla sorveglianza di un plotone di soldati non meno spaesati dei detenuti in quei solitari paesaggi. Ma anche lì i prigionieri riescono a salvaguardare il calore e il senso lucido dell’esistenza, finendo col fraternizzare con i loro sequestratori.
Con l’aiuto di uno strano avventuriero, chiamato il Gringo (Harvey Keitel), che preferisce l’intelligenza dell’ironia alla vigliaccheria del cinismo, di un militante della resistenza e di una giovane patriota (Caterina Murino), i prigionieri progettano la fuga, mentre la moglie dell’operaio (Angela Molina) e il compagno del cuoco, avendo capito la strategia del tiranno, si oppongono alle ricerche smorzando il clamore suscitato dal sequestro. Un passaggio difficile da capire, questo, perché costruito a partire dal principio della non-innocenza dei sequestrati, mirabilmente racchiuso in queste parole della donna: “Le persone come noi e i nostri compagni chiedono di vivere pienamente, con tutti i nostri diritti. E uno di questi diritti è antico quanto l’uomo ed è il diritto di ribellarsi contro le tirannie.
Se questo ci rende colpevoli, accettiamo la nostra colpa con orgoglio”, come dire che proclamarli innocenti avrebbe come unico risultato la perpetrazione delle bugie propagandate dallo Stato. Ed è a causa di queste bugie che il professore di storia sceglie la morte nel campo di prigionia con un tentativo di fuga-suicidio, non potendo più convivere con la vergogna di nascondere la verità ai suoi studenti. Ma nonostante la drammaticità delle tematiche affrontate il film è fortemente ironico ed ha spunti di comicità. “Lo humor – sostiene il regista – è l’arma più terribile, più sovversiva per combattere una dittatura”. “E’ apparso san Che Guevara” dirà uno dei prigionieri dopo l’incontro con i liberatori. La storia, alla fine, diventa “un grande messaggio di ottimismo, un’allegoria della vita; parla della magnifica esperienza che è la vita, quando viene vissuta nel rispetto di tutti i diritti e della dignità” dalle parole dello stesso regista. Ed è questo il tema centrale, che tocca vere punte di poesia nei sogni e nelle speranze, anche utopiche, dei personaggi. Uno dei passaggi più intensi di questo film, in cui la bellezza della parola supera quella delle immagini, è proprio quando il cuoco ricorda, dopo l’uccisione del compagno, che
la vita continua
fra lacrime e risate la vita continua
fra rabbia e amore la vita continua
fra la solitudine e la tristezza la vita continua
fra i giusti e i deboli la vita continua
e nulla, né una legge né un desiderio,
né una muraglia, né un oceano o un deserto
potranno mai fermare il suo scorrere infinito, nulla.
Per quelli che ci mancano e per quelli che verranno la vita continua.
Vivere compagni!
Vivere è il nostro grande compito.
Nowhere è un lungo viaggio nel cuore della più meravigliosa utopia, quella di realizzare da qualche parte i sogni di libertà che oggi non trovano altro spazio se non dentro l’uomo. “I mulini non ci sono più”, ama ripetere il Gringo citando Van Gogh, “ma soffia sempre lo stesso vento”.
CURIOSITA’
L’immagine che Sepùlveda aveva scelto per la locandina del film è stata “corretta”, a sua insaputa, nella realizzazione del manifesto, travisando e tradendo il senso di quella scelta. Un’incomprensibile e ingiustificabile censura ad opera di mani anonime ha praticato infatti una vera e propria “mutilazione” trasformando il pugno chiuso – simbolo della resistenza comunista – dell’attore Jorge Perugorria nelle due dita aperte, segno di una più moderata pace o vittoria. Sepùlveda ha dato un nome a questi anonimi: “piccoli servitori, piccoli cani fedeli al capo della comunicazione…al capo delle televisioni”.In un’intervista lo scrittore cileno ha manifestato apertamente e senza mezzi termini i suoi timori e la sua contrapposizione nei confronti dell’attuale governo italiano e del presidente del consiglio.Durante la presentazione del film (una coproduzione italo-argentino-spagnola) ha preso ferma posizione contro la concentrazione nelle mani del capo del governo del potere della comunicazione televisiva. “La televisione, quando si fa espressione di un pensiero “unico” -afferma- è segno della fine dello sviluppo della società italiana”.
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