GIAN LUIGI AGO:
ZENONE E I SENTIERI DELL’UTOPIA
Eccomi di nuovo a casa.
Chiudo la porta e il tempo è come se rallentasse improvvisamente.
Eh sì questa cosa del Tempo e della sua percezione mi ha sempre fatto un po’ pensare. A parte il fatto che io non credo al Tempo (e probabilmente neanche lui a me…) ma questa storia delle ore che a volte sembrano non passar mai e degli anni che invece come ti volti sono già passati, mi ha sempre innervosito un po’.
E intanto noi? Noi corriamo, corriamo sempre e comunque.
Eppure dovremo pur fermarci un giorno, noi che corriamo, corriamo ogni giorno, corriamo a perdifiato, corriamo verso il futuro, come se il futuro non fluisse già verso di noi nonostante la nostra corsa.
E’ quasi come se cercassimo di accorciare questa finzione del Tempo, come se volessimo inventarlo il moto, lì dove nulla in realtà può muoversi.
A volte mi convinco sempre di più che quelli di Zenone (*) in realtà non fossero paradossi ma la pura e semplice, inequivocabile verità. E forse l’eleatico, già qualche millennio fa, aveva capito veramente tutto e forse per questo, quando i suoi critici per dimostrargli le assurdità delle sue teorie si mettevano a camminargli intorno, lui scuoteva la testa e pensava: “illusi: il moto non può esistere; non potete pensare di muovervi solo perché sommate tanti momenti di immobilità”. E forse in qualche “luogo del pensiero” Achille piè veloce è ancora lì che cerca di compiere l’impossibile e assurda impresa di raggiungere in corsa la tartaruga.
Beh, è vero faccio pensieri strani (a volte) però è a questo che penso quando rifletto su me stesso e sugli altri: siamo tutti così irrequieti, così frenetici, così “lanciati”. La nostra esistenza è un continuo inaridimento della scelta nella ripetizione, è un continuo cercare l’ubiquità dove non esiste limite, e ignoriamo di essere invece sempre al centro di spazio e tempo.
Noi ribaltiamo continuamente la nostra afasia su dei piani immaginari dove nulla già esiste o tutto è già esistito. E il mondo è sempre più pieno di strane antinomie: clamore eppure silenzio, presenzialismo eppure assenza, afasia e comunicazione di massa.
E allora penso che un giorno dovremo pur fermarci.
Ma non parlo, a scanso di equivoci, di un’immobilità definitiva.
Intendo piuttosto dire che per me i sentieri dell’Utopia possono essere percorsi solo con un movimento “vero”, continuo, incessante, certo, ma che non può non partire da una nuova immobilità, che non può non configurarsi come un movimento che si origini da un giusto punto fermo sull’uomo e sul mondo, da una “tabula rasa” che sia premessa a questo nuovo cammino.
Ne ho già imboccate tante di strade per poi ritrovarmi sempre di fronte a nuovi bivi.
Sì, lo so, certo: forse questo è il vero senso di ogni vita, ma il fatto è che a me piacerebbe ”viaggiare per la stessa ragione del viaggio: viaggiare”, senza pensare a quale sarà l’arrivo (e se ci sarà un arrivo) e soprattutto senza cercare di correre dietro a valori (voglio dire disvalori), idee, successi di un mondo che m i piace sempre di meno.
Eh sì, il mondo…
Eppure anni fa ho anche lottato per questo mondo, ho creduto davvero di poterlo cambiare, di poter trasformare le emozioni, le illusioni, le speranze, le utopie appunto, in realtà concreta. Ho bruciato anche tante possibilità personali sull’altare del “possibile”, anzi di quello che allora era il “certo”. Ma poi sappiamo tutti com’è andata. E allora ci siamo rimessi tutti a correre, un po’ per recuperare il tempo perso…un po’ perché tutti correvano e allora anche tu ti accodi a questa grande maratona . Eppure oggi non ho più tanta voglia di correre. Non così, almeno. No, non è solo una questione di età e di fiato che viene a mancare (non ho più vent’anni e a ben pensarci, neanche trenta o quaranta o cinquanta…): è’ qualcosa, di dentro, che mentre corri per strada e ti vedi riflesso in una vetrina ti fa sembrare un cretino.
E allora oggi mi sembra che si debba tutti ritrovare la serenità di una nuova immobilità prima di ripartire. Vorrei che ci incamminassimo per gli eterni sentieri dell’Utopia con un carico nuovo, semplice e innocente, primordiale e insieme forte e che questo viaggio cominciasse da un attimo di silenzio, di immobilità. Ecco, mi piacerebbe volare e dall’alto guardarla questa immobilità , l’immobilità del giorno in cui finalmente ci fermeremo;
mi piacerebbe essere solo la memoria di quel nostro incessante incedere, oppure il Nulla.
(*) Zenone di Elea, filosofo del V secolo a.C., famoso per i suo i paradossi in cui negava l’esistenza della pluralità e del movimento.
LA LAVAGNA
L’aula è in penombra e sono rimasto soltanto io.
I miei alunni sono già corsi fuori e li sento scendere le scale con la stessa indomabile smania di ogni giorno.
Un po’ mi assomigliano: solo meno malinconia, meno entusiasmo, meno voglia di aprire i loro occhi chiari sul mondo, ma magari sono io che equivoco, che non ricordo, che confondo…
Ma non importa: stasera non ho voglia di andare subito via, mi piace restare ancora un po’ qui coi miei pensieri, a fissare il muro, e al muro la lavagna.
Forse per tutti c’è una stanza in penombra che aspetta di vederci arrivare, in un giorno come questo, per fermarci coi nostri pensieri davanti a un muro, davanti al nero di una lavagna.
Una lavagna nera, senza memoria.
Le lavagne non hanno memoria, hanno soltanto l’oggi, non hanno pagine da voltare, pagine da rileggere ogni tanto con uno stupore nuovo, trovando nuovi significati per le stesse parole e tra le righe suoni, odori, umori che avevamo dimenticato o mai conosciuto, nuovi sintagmi da cui ripartire.
Vi abbiamo impresso segni e questi segni scivolano implacabili nel nero della memoria a ogni colpo di spugna sostituiti da altri che vi abbiamo sovrapposti.
Che senso ha mai questo affastellarsi di memorie, questo tempo che avanza e condiziona pur non esistendo?
Un attimo, ci resta soltanto un attimo: l’ultimo. O forse è il primo? O forse è l’unico?
Ci dovrà pur essere un modo per ritrovare noi stessi, non quelli di oggi o di ieri, voglio dire “veramente” noi stessi, coi segni che abbiamo impresso a fatica sulla nostra lavagna.
Ma ormai si sta facendo sempre più tardi e la lavagna è sempre lì davanti a me, come un giorno sarà davanti a ognuno di noi e quando saremo arrivati all’ultimo colpo di spugna avremo perso il vero senso di quei segni scomparsi, omologati agli altri nel nulla.
Fisseremo quel vuoto e forse solo allora capiremo.
Cosa volevamo dimostrare? Chi volevamo punire?
E resteremo le uniche vere vittime, cercando almeno un’ombra di quei segni sbiaditi, persi per sempre, cancellati ogni volta. Ma decifrali ancora, valutarli, capirli, sarà difficile in quel rimpianto di cose che han memoria: sarà gesso in frantumi tra le dita.
Resteremo soli in quella stanza in penombra, stringeremo immobili la spugna tra le mani, guardando fissi il muro e al muro la lavagna.
Ma una lavagna ha solo l’oggi, non memoria……
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