Credo che esista un parallelismo tra Giorgio Gaber e Bruce Springsteen.
Capisco benissimo che una simile considerazione può sembrare a prima vista azzardata e non pertinente, eppure ci sono molti elementi assimilabili che fanno di questi artisti due facce di una omologa analisi sull’animo dell’individuo e del suo rapporto con l’odierna società.
A mio parere non deve trarre in inganno l’enorme apparente diversità dei due artisti, le differenze di contesto culturale e sociale, di tipo di musica, di modo di porsi rispetto al pubblico, inevitabili tra una “rockstar americana” e un “intellettuale” europeo, per di più italiano.
Ma la storia dell’esegesi ci ha insegnato che a volte anche in letteratura e in arte si trovano precisi parallelismi e coincidenze tra scrittori, pittori, musicisti, ecc. divisi da secoli e nati in luoghi e contesti sociali tra i più disparati. Questo credo accada perché il “grande” artista, pensatore, intellettuale e quant’altro, si muove a un altro livello, livello in cui il “materiale” sociologico, culturale, storico, ecc. ed anche le modalità espressive, sono sì importanti ma, ai fini dell’espressività concettuale possono essere una ” contingenza” da cui partire per un’analisi che, a simili livelli, non può che essere “universale” e volta ad evidenziare lo “stato dell’arte” dell’animo umano e del suo rapporto con la realtà psicologica, relazionale e sociale con cui si trova a dover convivere.
Per questo, alla fine, le analisi, pur partendo da realtà diverse e mediate da linguaggi e forme estetiche diverse, pervengono, nel caso dei grandi, a conclusioni pressoché simili.
Le canzoni del “Boss” ci descrivono un’umanità disorientata dalla disgregazione del mondo “occidentale”, umanità che cerca di ripartire dall’interno del proprio io, delle proprie emozioni per ricostruire un uomo nuovo (concetto che troviamo anche in Gaber/Luporini).
Sono personaggi che per usare le parole di Springsteen “cercano di navigare attraverso le proprie confusioni, a volte in maniera efficace, a volte tragicamente”. Sono canzoni che ci parlano di un uomo “arrivato al minimo storico di coscienza” (come direbbero Gaber/Luporini).
Sono storie che ricordano quelle di Steinbeck e degli scrittori della beat generation. Sono storie di ragazzi di periferia, di provincia, che lottano contro la disoccupazione, la crisi economica, la “nuova depressione”, che sognano di riuscire a superare gli ostacoli ai loro amori sempre sofferti e difficili, che si dibattono nell’altra faccia della “scintillante America”; sono personaggi della work-class, lontana dalle patinate immagini televisive.
Sono storie contro la guerra, che ci parlano di ragazzi uccisi senza motivo dai poliziotti, che ci parlano di piccola delinquenza, ma anche di amicizia, di sogni di redenzione, di rassegnazione e speranza, di miserabili e di “ultimi”. D’altronde, pur con le succitate differenze, Gaber e Springsteen sono stati lo specchio e la coscienza fastidiosa e inquieta di una e più generazioni, e di un intero Paese. Altri parallelismi, sono quelli della grande fisicità dei due artisti che, ovviamente in modi totalmente diversi, trovano la loro completa dimensione solo nel rapporto diretto col pubblico. C’è un modo di dire, nato da un critico “il mondo si divide in due parti: quelli che amano Springsteen e quelli che non lo hanno mai visto dal vivo”. Come per GG, anche per il Boss è impensabile di limitarsi all’ascolto: va visto sul palcoscenico. Altra importante coincidenza è quella dell’onestà intellettuale e della grandissima coerenza che accomuna i due artisti. Ovviamente le diversità di modalità espressiva sono spesso notevoli e nel caso di Springsteen possono apparire penalizzanti per chi ne ha solo un’idea approssimativa e lo confonde con un semplice rocker o rockstar, ignorando la grande portata dei suoi testi, della profonda coerenza e contenuto del suo percorso “letterario”, della sua grande capacità di scavare dentro l’animo umano così profondamente, pur muovendosi in una realtà certamente meno predisposta e storicamente meno abituata a simili intellettualismi artistici. E questo è riuscito a farlo con l’arma apparentemente contraddittoria del rock, delle arene con 250.000 persone e riuscendo a volgere a suo favore un mercato discografico e mediatico che ormai non può più permettersi di tappargli la bocca, come cercò di fare il sindaco di New York Giuliani che invitò a boicottare i suoi concerti, quando Springsteen scrisse “American skin-41 shots”.
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