‹‹ Vorrei soltanto un luogo un posto più sincero
dove magari un giorno molto presto
io finalmente possa dire questo è il mio posto
dove rinasca non so come e quando
il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo ››
In questo testo noi possiamo identificare alcuni temi dominanti, alcuni termini chiave, che ci sono, mi sembra, molto utili per gettar luce e suggerire qualche congettura a proposito della faccenda complicata, ingarbugliata, che mi è stata affidata come compito scientifico. Nella “Canzone dell’appartenenza” come in tutti i frammenti di poesia, Gaber fa giocare tra loro almeno tre termini complementari. Il primo naturalmente è quello dell’appartenenza e, se volete, dell’identità collettiva, del far parte di qualcosa.
Il secondo è quello della dimensione di ciascuno di noi, cioè la dimensione individuale, che è stata spesso chiamata esistenziale, anche Giorgio usava questo termine, io preferisco chiamarla dimensione personale.
Il terzo termine chiave è quello dello sforzo collettivo, del senso collettivo, cioè dello stare insieme per fare qualcosa, dell’azione collettiva mirante a scopi per rendere meno innocenti e più degni di lode i nostri modi di convivere nel tempo per ritrovare il mondo, per una democrazia per cui si possa confutare l’argomento scettico 1996, che abbiamo sentito ora.
Proviamo a far lavorare questi tre termini fondamentali, queste parole chiave, per avanzare una congettura – questo è il punto che mi interessa proporvi – sul rapporto tra le vicende politiche, culturali e sociali degli anni ’70 e dintorni – Gaber negli anni ’70 è a Milano, sfondo di questa nostra conversazione – e la straordinaria esperienza artistica del Teatro Canzone, cui Gaber e Luporini dedicano a partire da quegli anni la loro vita e la loro creatività.
Tanto per esser precisi, chiediamoci che cosa voglia dire propriamente rapporto tra vicenda collettiva e opera d’arte. Io risponderei così: Gaber e Luporini si mettono alla prova nel tentativo di raggiungere una comprensione chiara, perspicua, delle trasformazioni, dei cambiamenti di cui sono al tempo stesso a volta a volta osservatori e partecipanti. E l’interesse, la motivazione, la voglia che anima il modello, il tentativo, è naturalmente quello di comunicarla a un pubblico. E comunicare a un pubblico, soprattutto nella dimensione dell’evento teatrale vuol dire costituire un pubblico, costituire qualcosa che sa di appartenenza. Ci sono molti modi differenti di costituire un pubblico nel comunicare, ci sono i modi del guru televisivo, ci sono i modi dell’offrire ragioni agli altri e ci sono i modi dell’offrire emozioni agli altri, offrire agli altri legami, offrire agli altri evocazioni, parole, musica e gesti e questa è la cassetta degli attrezzi. L’abbiamo sentito adesso, l’abbiamo vissuto adesso (1) , la cassetta degli attrezzi di quello che vorrei chiamare Giorgio, il divino giullare. Una comprensione chiara e perspicua è un’espressione che non ha qualificato. Io penso che la caratteristica distintiva di Gaber e Luporini sia quella di mirare alla veridicità, dire e cantare quello che sono e quello che pensano. Per mirare con efficacia alla veridicità occorre praticare l’esercizio dell’interrogazione. “Per me cultura – dice Giorgio – è un modo d’interrogazione, e l’interrogazione è centrale per capire di più di sé e del mondo” (2).
Questa tensione alla veridicità implica l’esercizio dell’interrogazione e dello smascheramento. Il pezzo sulla democrazia è un pezzo di smascheramento, sistematico. Che cosa fa quel pezzo, che effetto ha quel pezzo su di noi? Questo è il mio problema. Quel pezzo fa si che noi, insieme – perché ci sono persone in carne ed ossa qui – siamo colpiti da ciò che ci viene detto e dal modo in cui ci viene detto, siamo colpiti dalla mente-corpo che vediamo, la corporeità in Gaber è straordinariamente importante, e questo fa sì che noi riflettiamo su noi stessi insieme, questo è il punto.
È questa cifra distintiva dell’opera di Gaber/Luporini che è responsabile dell’effetto che l’opera di Teatro Canzone ha nella sua offerta di comunicazione, che io chiamerò l’esito di rinominare noi stessi e il mondo. Questo tema del dare nomi alle cose è cruciale, perché potremo ancora usare il termine “democrazia” nello stesso modo in cui lo facevamo col pensiero omologato, dopo aver veramente ascoltato questo? Gaber sta rinominando delle cose. E uno dei punti fondamentali, io credo, dell’opera di Gaber, non l’unico, ma uno dei fondamentali, è stato il suo essere una persona libera, un artista libero rispetto agli etichettamenti e alle classificazioni date del discorso pigro, e questo discorso è un discorso invece che rinomina la democrazia e quindi ci costringe a fare un passo in avanti. Questo almeno è quello che penso io.
Un “mondo che deve essere ritrovato” diceva la “Canzone dell’appartenenza”, un mondo in cui possiamo ritrovare ragioni che evidentemente si sono perse o sono state dissipate, e ritrovare una chiarezza che è stata resa opaca o tritata, infangata ai tempi dell’omologazione del pensiero. Cito: “Se non si lotta per cercare una ragione, per inseguire la chiarezza, tanto vale crepare” (3)
Torniamo ora ai nostri tre termini. Ve li ricordo: il termine dell’appartenenza, il termine della dimensione personale, individuale, e il termine di qualcosa di collettivo, come azione, sforzo collettivo per far qualcosa, per raggiungere certi scopi. Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 noi assistiamo, osservatori o partecipanti, appassionati o scettici, devoti o critici, intimoriti o entusiasti, allegri o depressi, all’insorgenza di movimenti collettivi che coinvolgono ampi strati di popolazione giovanile. L’insorgenza ha le sue radici nei processi di modernizzazione degli anni ’60 e i movimenti giovanili, all’inizio quasi esclusivamente studenteschi, non solo in Italia come è noto, perseguono fini, io sostengo, intrinsecamente non politici, se un fine politico è qualcosa che ha a che vedere con l’acquisizione di potere per avere governo su altri, quanto piuttosto etici nel senso elementare di questa parola, per cui ciò che diviene oggetto di controversia, contestazione collettiva, discussione, mobilitazione, è lo spazio sociale, non politico, in cui una società ingessata modella e disciplina le relazioni fra persone. I movimenti giovanili mettono in questione i modi di esercizio dell’autorità, dell’autorità culturale, religiosa, familiare, sociale, maschile, prima ancora dell’autorità politica, verso cui si avanza piuttosto una revoca di fiducia (fine anni ’60).
I vocabolari ereditati sono divenuti quello che si dice “lingua fossile”, e per dirla in breve è facile credere che il re è nudo. Cito: “Quel tipo di movimento giovanile ci colpì moltissimo. Siamo stati coinvolti nel ’68 perché ha prodotto una grossa svolta nelle scelte della gente” (4). Pensate, oggi, negli stanchi rituali e poco attivi degli anniversari – avete già visto che viene anticipata l’annosa querelle sulla natura del ’68, sulle rivalutazioni del ’68, adesso c’è il tormentone del 2008 – ma a me sembra che una diagnosi come quella del filosofo Gaber, quello che per me è il divino giullare, sia penetrante e convincente, molto semplice. Cito: “Il rifiuto è stato l’elemento meno sottolineato, immediatamente si è ritornati, ci si è rapportati, a un piano politico di lotta”(4), ma per che cosa, per quale indirizzo culturale?
Anche in Italia, nella fase dell’insorgenza, il ’68 connette quei tre termini fondamentali da cui sono partito. Per l’appartenenza, assistiamo a una domanda di identità collettiva definita per differenza e per contrasto rispetto al sistema delle etichette, dei poteri, delle assegnazioni di ruoli sociali, istituzionali, culturali, religiosi e morali. La dimensione personale, secondo termine, assume rilievo in quanto connessa e cucita con tante dimensioni personali, in virtù dell’identità collettiva come richiesta o come conquista. Lo sforzo collettivo per ritrovare un mondo, terzo termine fondamentale, coincide con l’insieme delle speranze e delle aspettative per un mondo possibile che è a portata di mano, purché lo si riconosca e solo se lo si voglia perseguire come fine desiderabile. Questo è il succo dello slogan paradigmatico, l’imagination au pouvoir, dei Dreamers che piacciono a Bertolucci, del celebre e molto veloce maggio di Parigi.
Non ho usato e sottolineato a caso il termine “speranza”. Ricordate, di “Qualcuno era comunista” Giorgio dice che non è una canzone politica, ma una pagina esistenziale che parla di uno slancio, di una grande speranza. Come ho sostenuto altrove, la mia congettura sull’insorgenza dell’azione contestativa e anti-autoritaria tende a considerare quello del ’68 come un terminus ad quem, cioè quasi una conclusione, piuttosto che un terminus a quo, cioè qualcosa da cui parte quella lunga stagione dei movimenti che si nutrono della speranza e della devozione politica. Bertolucci ci dice che si andava a dormire sapendo che al mattino dopo ci si sarebbe svegliati nel futuro. E se ci pensate oggi sui muri appare spesso una scritta che io trovo fantastica, enigmatica e sapiente: “Il futuro non è più quello di una volta”. Provate a riflettere su questo, sulle varie implicazioni che ha sui nostri modi di convivere. Ma ciò, prosegue la mia congettura, è vero, cioè il fatto dell’interpretazione del ’68 come movimento collettivo in quanto avente implicazioni politiche, come terminus ad quem, non come terminus a quo, è vero per quanto attiene all’ambito, alla sfera dell’agire politico, mentre è falso se lo sguardo mette a fuoco lo spazio sociale e interpersonale dei modi di convivere del tempo. Ed è allora, io credo, che si annuncia la grande questione dei limiti della politica, del sistema politico, dell’agire politico, che è una eccellente risorsa perché una democrazia possa essere rinominata dopo la confutazione scettica di Giorgio.
Devo constatare per onestà intellettuale che la mia congettura non è molto popolare, ma è facile spiegare perché. In Italia, come in Germania e in parte in Giappone, ma non come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, il repertorio delle ideologie politiche di salvezza è un capitale troppo significativo e influente per non generare processi di revival e forte ideologizzazione e distorsione dei movimenti, e da quella parte il sistema politico, percependo a fatica la natura delle nuove domande sociali, o adotta la tattica del muro di gomma, o insegue fuochi di devozione politica per ricostituire il suo decrescente capitale di fiducia e di legittimazione, o, nei casi più loschi, trama in forma latente per persistenti arcana imperii.
Dalla metà degli anni ’70, l’interrogazione che mira alla verità e alla veridicità di Gaber e Luporini mette a nudo e smaschera impietosamente con le virtù usuali della sincerità e dell’autenticità le trasformazioni e i mutamenti che investono il nostro paesaggio sociale. In una fase drammatica, piena come sempre di luci e di ombre, in cui l’operare delle istituzioni e del sistema politico estende la propria influenza pervasiva – alla faccia dei limiti della politica – recupera progressivamente terreno sulla società, in presenza di fazioni di dissenso, o di dissenso radicale e di lotta armata terroristica. E questa è grosso modo la questione del lungo ’68 italiano, come si usa chiamare, che mette a dura prova la democrazia, che incentiva il carattere consociativo del sistema politico sino alla lunga implosione – e qui ci sono le radici – fino all’inizio degli anni ’90 del sistema politico italiano.
E allora il giullare non può trattenersi, perché verrebbe meno a se stesso e alla propria coerenza, nel riabilitare il tema della dimensione personale, che è uno dei tre punti, della responsabilità individuale, della battaglia da fare nelle piccole cose, nella coerenza dei piccoli gesti quotidiani, in una parola nella cura di sé. Ed è allora che una frazione di seguaci e devoti si scandalizzano, “Gaber non è più dei nostri” ci si chiede. Notate “non è più dei nostri”, si esclude dalla cerchia della comune appartenenza. Potremmo dire laicamente per rispondere ai devoti dell’identità fossile oportet ut scandala eveniant, bisogna che accadano scandali. Perché la lezione di Gaber e Luporini è tenuta assieme da un filo di coerenza sottile ma tenace, e resta aperta la sempre di nuovo la questione del mondo da ritrovare, ma si deve dire la verità, la propria verità naturalmente. Ed ecco allora la critica irridente e severa sullo sfondo tragico della nostra storia della professione politica, “la politica fa male alla pelle” di “Io, se fossi dio”, ecco allora il bisogno irrefrenabile di rinominare le cose, di dire no, di rifiutare le etichette e le denominazioni assegnate e imposte da potenti, che siano potenti politici o potenti sociali, quali per dir così il mercato idealizzato.
Mi chiedo ora e vi chiedo: se l’accento è posto sulla priorità nella dimensione personale, liberata e emancipata dal dominio delle appartenenze politicamente assegnate, dobbiamo inesorabilmente rinunciare alla connessione con quell’appartenenza e quella voglia di fare insieme per ritrovare il mondo, quella per cui “libertà è partecipazione”, da cui sono partite queste mie osservazioni che avete sentito? Giorgio dice: “Oggi non esiste appartenenza a nulla. Ricordo anni in cui il senso collettivo era presente come istinto nelle persone” (5) e ancora “I nostri slanci, i nostri ideali e le passioni, non sono riusciti a cambiare il mondo” (6). Questa potrebbe essere interpretata, e ci sono ragioni per questo, come la conclusione scettica, cioè la conclusione di un bilancio con perdite, non con profitti, che è anche un bilancio generazionale. È curioso, perché Gaber aggiunge “Riconoscere questo – che i nostri slanci, i nostri ideali e le passioni, non sono riusciti a cambiare il mondo – vuol dire che non è finito tutto”(6). È il contrario di quello che molti hanno detto, che riconoscere questo voleva dire che non c’era più nulla da fare che valesse la pena. Perché? Perché ammettere la propria sconfitta è indispensabile per poter ripartire con maggior chiarezza e con nuovi slanci vitali. Sandro e io abbiamo una fiducia illimitata nelle potenziali risorse dell’individuo e questa potrebbe essere la nostra fede. Laica, naturalmente.” (7).
Così, posso concludere, il filo che connette il nostro convivere assieme, l’avventura personale delle nostre vite, e l’impegno civile per una democrazia accessibile a tutti, “vorrei cantare per tutti”, non è spezzato e in tempi difficili, aggiungo, è prezioso ed è l’origine della mia o della nostra gratitudine.
Solo un’ultima citazione come scudo protettivo, e ho voluto evitare qualsiasi accenno a quello che io sento per Giorgio, l’emozione, l’ho messo da parte.
‹‹Ma io ti voglio dire che non è mai finita
che tutto quel che accade fa parte della vita ››
Questo è vero nell’amore, ma anche in democrazia.
NOTE:
(1) Il filmato del monologo “La democrazia” ha preceduto l’intervento.
(2) W. Gatti, “Parlo in Grigio”, Il Sabato – 20/07/1991.
(3) Michele Serra, “Giorgio Gaber. La canzone a teatro”, il Saggiatore, Milano 1982.
(4) C. Bernieri, “Non sparate sul cantautore”, Mazzotta editore, Torino 1978.
(5) L. Putti, “Giorgio Gaber: questa povera Italia in mano agli egoisti”, La Repubblica 8/11/1994.
(6) F. Poletti “Giorgio Gaber: I miei cattivi pensieri”, Specchio – n.271 – 21/04/2001.
(7) Milano, marzo 2002 – a cura di V. Pattavina, “Giorgio Gaber – La libertà non è star sopra un albero”, Einaudi, Torino 2002,
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